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P. Gian Franco Scarpitta

 

 

San Francesco di Paola

La vita e i tratti di spiritualità

  


 

  

 

INTRODUZIONE

 

  Questo lavoro su San Francesco di Paola non è il primo e neppure sarà l'ultimo, essendovi stati nell'Ordine dei Minimi Religiosi molto ferventi nello studio e nella riflessione su questo grande Santo, ma si vuole comunque apportare un ulteriore contributo alla conoscenza di questo pio e devoto eremita calabrese attraverso l'esposizione delle tappe della sua vita a cui faranno seguito due capitoli che tenteranno di interpretare la vita stessa del Santo e l'opera alla luce del dono carismatico con cui Egli ha edificato la Chiesa e della persistenza di questo dono per quanto riguarda l'accrescimento della nostra edificazione in vista della perfezione cristiana.

  Leggere e meditare le tappe della vita di San Francesco di Paola è molto bello e affascinante, poiché si scopre di avere a che fare con uomo che in tutti gli ambiti e i contesti non soltanto mostra di coltivare in prima persona la sua predilezione per il divino e di incentrare su Dio ogni attimo della sua vita con la conseguenza di copiosi frutti di arricchimento spirituale e di costanza nel bene, ma sa rendersi anche entusiasta apportatore del valore del primato di Dio presso tutti gli uomini, per mezzo di un costante richiamo alla vita di conversione e alla realizzazione di ogni esperienza secundum Deum, poiché in definitiva l'uomo di tutti i tempi avverte inconsapevolmente la necessità del trascendente per uscire dalle disilussioni dell'effimeratezza del vissuto attuale: Dio è la necessità  primaria di ogni uomo che voglia realizzare se stesso e il ricorso a Lui non può che essere visionato come irrinunciabile. La vita di san Francesco di Paola, anche nei particolari dei miracoli e degli eventi prodigiosi (tantissimi) che a lui si attribuiscono è sempre stata un richiamo alla riscoperta di Dio come valore necessario colto nel carattere dio pura positività e garanzia, perchè in effetti Egli si mostra come elemento di qualificazione dell'uomo.

  Nella sua vita eremitica e nell'intensità della dedizione franca e risoluta alla preghiera, Francesco esperì in prima persona l'amore di Dio e la grandezza esperibile della familiarità con lui e di queste si rese apportatore attraverso una vita di continua testimonianza presso la gente di ogni estrazione sociale e di differenti luoghi ed etnie, avendo egli vissuto sia nella Calabria semplice agricola e contandina, sia nell'altezzosa Francia della corte regale.

  Nella prima parte di questo lavoro percorreremo le tappe della vita del Santo, aiutati dagli ausili di non pochi biografi e delle testimonianze di coloro che deposero ai vari Processi di beatificazione del Santo; la seconda e terza parte riguarderà invece una serie di riflessioni sui vari tratti della spiritualità di San Francesco di Paola eremita e Fondatore, in primo luogo sul valore della penitenza  evangelica con cui anche oggi si distingue il suo Ordine religioso, anche è soprattutto alla luce delle attuali direttive della chiesa e nel raffronto con il comune patrimonio della teologia e della spiritualità di cui abbiamo sempre fatto tesoro. Tale caratteristica della penitenza  è quella costitutiva del richiamo a Dio come primaria necessità dell'uomo odierno.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

1

FRANCESCO DI  PAOLA: TAPPE DELLA SUA VITA

 

  E' risaputo che la Rivelazione si chiude con l'ultimo apostolo e che il Verbo Incarnato di Dio ne è la pienezza; quindi tutto quello che in Cristo il Padre ci ha voluto rivelare è sufficiente a guadagnarci la salvezza e la vita eterna. Ciò nondimeno Dio ha voluto collocare nella storia alcune persone che percorrendo passo passo le tappe della nostra vita con la loro testimonianza e la radicalità della scelta cristiana hanno ottenuto che noi fossimo ulteriormente orientanti verso lo stesso Verbo perchè con più speditezza ne seguissimo le orme. Essi stessi sono stati infatti un vangelo vivente e radicato, avendo vissuto la perfezione nell'imitazione piena del Redentore. Si tratta dei Santi, che con la loro vita risvegliano in noi l'attenzione e l'amore per Gesù, non alterando il suo messaggio e anzi riproponendolo costantemente salvaguardandone l'integrità per la sua messa in atto a beneficio del popolo di Dio in tutte le dimensioni e i contesti epocali.

  Il Santo non si sostituisce a Cristo quanto alla sua onnipotenza e alla redenzione né è oggetto primario della nostra fede; piuttosto ci rimanda al Salvatore sotto un invito particolare che riecheggia nell'apostolo Paolo: “Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo.”

  Francesco di Paola fu uno di questi Santi che si aggiungono alle annoverazioni del tesoro spirituale della Chiesa soprattutto per la sua vita virtuosa e fondata nella continua ricerca del Signore nello spirito della “minimezza” e dell'annientamento dal quale scaturiscono sempre amore esplicito e carità verso i fratelli.

  Ripercorrere le tappe della sua vita è molto entusiasmante e avvincente, poiché ci si immedesima in un mondo speciale di amore verso Dio che viene sempre ricompensato, anche a proposito del più piccolo miracolo. Si riscontra nella vita di Francesco come Dio dalla piccolezza è capace di trarre grandi cose a beneficio dell'umanità e intanto ci si avvale di una ricca testimonianza di valori che vengono incarnati effettivamente, anche se di fatto messi in discussione.

 

 

1.1 Dalla culla alla grotta e dintorni

 

  Voler rinvenire in Francesco di Paola una primaria spiritualità francescana acquisita è piuttosto azzardato e poco conforme alle fonti che si hanno a disposizione, poiché il Paolano non ebbe propriamente ad abbracciare e far sua una dimensione di vita spirituale secondo la proposta del Patriarca di Assisi; tuttavia è innegabile che un primitivo orientamento francescano vi sia stato, almeno nella sua formazione cristiana iniziale.

  Nacque infatti nella Contrada Terravecchia di Paola, località della Calabria sita nella zona del Bruzio, il 27 Marzo 1416 da una famiglia molto religiosa, devotissima a San Francesco di Assisi in onore del quale ricevette il nome di Francesco. I genitori, Giacomo Martolilla e Vienna da Fuscaldo, persone semplici e di umili condizioni anche se proprietari di poderi e di appezzamenti agricoli, svolgevano vita prevalentemente rurale ed erano molto zelanti nella fede e nella religiosità popolare che veniva esternata soprattutto nella pia devozione al Santo Patrono Assisiate e non è fuori luogo pensare che avessero inculcato nel piccolo Francesco, accanto agli elementi fondamentali della dottrina e della pedagogia cristiana, anche l’amore per questo Santo umbro che era sempre stato oggetto della loro venerazione, così come capita pressocchè in tutte le famiglie in cui i genitori coltivino una determinata tendenza prevalente o  uno specifico itinerario di formazione: oltre che farne tesoro essi stessi, lo trasmettono anche ai loro figli, speranzosi che essi lo possano percepire, assimilare e recare con sé nella vita futura.

  A rendere ulteriormente l’idea della vicinanza stretta dei coniugi Martolilla con il Santo di Assisi è anche l’episodio doloroso che sconvolse la loro tranquillità nel notare che, dopo sole poche settimane dalla sua nascita, il fanciullino recava un disturbo maligno sull’occhio sinistro che si era già esteso verso tutti gli altri organi ottici come la cornea e ormai stava minacciando di compromettere  per intero la vista di Francesco.

  Presi dalla concitazione e dalla tensione per le conseguenze nefaste che avrebbe comportato questo male improvviso, Giacomo e Vienna fecero ricorso ai medici e ai periti affinchè si trovasse rimedio a questa preoccupante situazione, senza tuttavia pervenire a risultato alcuno. Dedita allora alla preghiera attenta e assidua, Vienna espresse a San Francesco di Assisi il desiderio che Dio, per sua intercessione, concedesse a Francesco la guarigione da questo malessere fisico che aveva reso già inutilizzabile l’uso di un occhio al proprio figlioletto, con la promessa che se questo si fosse realizzato, quando il ragazzo sarebbe cresciuto, ella e il suo consorte lo avrebbero condotto in un convento francescano per vestirvi l’abito votivo per la durata di un anno, quale segno di gratitudine e di ulteriore devozione a Dio e al Santo Assisiate.

  La guarigione di Francesco dall’ascesso avvenne di lì a poco in modo pressocchè miracoloso, giacchè il disturbo si arrestò e il piccolo recuperò la vista dell’occhio sinistro.

  Francesco crebbe nella casa paterna per tutti gli anni della sua infanzia seguendo le guidato nella religione soprattutto dalla madre, che con le parole e con l’esempio, a detta del P. Roberti, contribuì ad fomentare nel fanciullo “il gusto della preghiera, l’amore al raccoglimento e i sentimenti di una soda pietà”[1] incoraggiando così in lui una fedele predisposizione verso il sacro accompagnata dalla sana educazione ai costumi cristiani e ai moniti del Vangelo; l’esempio di vita e la bontà d’animo dei genitori, come pure il loro accompagnamento formativo man mano che il fanciullo cresceva e si imponeva nella statura fisica furono determinati a segnare i lineamenti primari della formazione spirituale e culturale di Francesco essendo sempre costante e premurosa la presenza spirituale di ambedue i coniugi nella sua educazione.

  Non è esagerato affermare pertanto che, essendo la vita e le opere di San Francesco di Assisi l’oggetto specifico delle attenzioni da parte di questi devotissimi coniugi, questi ne abbiano sedimentato i lineamenti nella formazione cristiana del Nostro, peraltro incoraggiati anche dall’assistenza spirituale del francescano minore P. Antonio da Catanzaro, con cui Vienna e Giacomo erano entrati in contatto mentre questi si trovava a svolgere il ruolo di Superiore nel Convento di San Lucido, a pochi chilometri da Paola, entrando in ottime relazioni di amicizia: il P. Antonio sarà l’accompagnatore spirituale stabile della famiglia Martolilla che lo seguirà anche quando questi sposterà la propria sede a San Marco Argentano e proprio con il suo sostegno e il suo appoggio materiale oltre che spirituale, adempiranno la promessa fatta al Santo Assisiate di far vestire l’abito votivo per un anno al piccolo Francesco. Lo stesso padre Antonio fu il sacerdote da cui Francesco ricevette la Prima Comunione e venne istruito anche sui sentimenti di pietà e di retta coscienza.[2]

  Per quanto riguarda l’adempimento di siffatto voto, è opinione comune che i genitori avessero di fatto trascurato, dopo tanti anni dall’avvenuta guarigione dell’occhio sinistro del figlio, di prendere l’iniziativa di condurre Francesco presso un convento di Frati Francescani Minori: forse perchè ormai affezionati all’idea della presenza casalinga del proprio fanciullo, che intanto cresceva nella virtù, esemplarità di vita, generosità, altruismo e sentimenti evangelici dando anche monito agli stessi genitori i due coniugi paolani probabilmente indugiavano non poco nel manifestare fedeltà alla promessa fatta a Dio e al Santo di Assisi ed è tradizione che questa sia stata portata a termine solo in seguito ad una visione celestiale del fanciullo che una notte, mentre riposava placido nella propria stanza, notò che questa si riempì improvvisamente di fulgida luce a giorno; gli apparve in sembianze umane il Poverello di Assisi che lo invitava a convincere i propri genitori a prestare fede alla promessa fatta da Vienna e ad accompagnarlo così quanto prima in uno dei conventi calabresi gestiti dall’Ordine Francescano.

  Francesco non esitò a chiedere con insistenza ai genitori che realizzassero quanto comandato dal Patrono d’Italia, sicchè nel 1428 avveniva che, rotto ogni indugio, Giacomo e Vienna condussero Francesco nel Convento dei Minori di San marco Argentano, un paese a nord di Paola, ben distante dalla casa francescana di San Lucido che sarebbe stata molto più abbordabile trovandosi il paese immediatamente nelle vicinanze della città natale del Nostro. La motivazione di tale scelta è probabilmente legata all’amicizia e alla confidenza scaturita in tanti anni con il P. Antonio da Catanzaro, che come già si è detto presso il Convento di San Lucido era stato molto attento nell’esercizio della guida spirituale di Giacomo, di Vienna e dello stesso Francesco e pertanto adesso, nonostante la distanza geografica, non esitavano a che il ragazzo fosse seguito dallo stesso padre spirituale.[3] Secondo alcuni agiografi tale esperienze avrebbe avuto inizio all’età di 12 anni; secondo altri quando ne aveva 13 e l’Anonimo scrittore della sua Vita con una certa insistenza lo fa entrare all’età di 15 anni.[4]

 Accolto quindi fra le mura conventuali di San Marco Argentano dallo stesso P. Antonio da Catanzaro che celebrò per lui il rito della vestizione dell’abito votivo, affidato alla comunità dei Religiosi dai genitori che fecero ritorno a casa, Francesco iniziò la sua nuova avventura conventuale, realizzando la prima esperienza in assoluto di vita religiosa sotto la quadruplice osservanza della povertà, della castità, dell’umiltà e dell’obbedienza, così come prevedeva il programma di vita francescana per chi vestisse un abito votivo.

  Sempre l’Anonimo descrive la permanenza di Francesco nel convento di San Marco Argentano come quella di un ragazzo esemplare in grado di edificare perfino gli stessi religiosi residenti nella casa già da diverso tempo: nutriva grande amore per la preghiera e per la penitenza sostando per parecchie ore davanti al SS. Sacramento e intrattenendosi in chiesa al termine delle funzioni; lo si vedeva non di rado in atteggiamento estatico e assorto nelle orazioni e nella meditazione; il fascino delle cose celesti lo impegnava anche di notte, di fronte ad un’immagine del Cristo crocifisso o della Madonna. Ciò nondimeno era infaticabile nelle incombenze della casa, alle quali si prestava con impegno e abnegazione svolgendo compiti umili quali la pulizia dei pavimenti e delle stanze, il servizio della cucina, la cura della dispensa, lo spaccare la legna nei boschi, la questua e tante altre opere di servile sottomissione che svolgeva senza mormorazioni.

  Secondo una testimonianza lo si notò una volta in chiesa ad attendere alle orazioni e contemporaneamente anche nella cucina conventuale a sbrigare le mansioni, per un prodigioso effetto di bilocazione e in una certa occasione in cui si era intrattenuto a lungo in preghiera dimentico di preparare i legumi in cucina per i frati, avvenne che questi si cossero prodigiosamente lo stesso.

 La normativa rigorosa e austera che la disciplina conventuale comportava per tutti i frati non gli fu di alcun fastidio, visto che già per sua natura Francesco vi si mostrava propenso, manifestando anzi molta più solerzia e disposizione di quanto si sarebbero aspettati gli stessi Religiosi dimoranti; l’osservanza della Regola e delle disposizioni avveniva in lui con molta disinvoltura e serenità senza che gli uffici conventuali legati agli orari di comunità comportassero per lui aggravio o pesantezza. La disponibilità e la docilità di Francesco suscitarono anche le ammirazioni, oltre che della gente del circondario, anche del Vescovo locale Luigi Imbraco, che sovente giungeva al convento per intrattenersi a conversare con lui.

 Nonostante il proposito suo e dei genitori fosse quello di permanere a San Marco Argentano solo per lo spazio di un anno, i frati del convento non poterono non rivolgergli la proposta di consacrarsi definitivamente al Signore nello specifico della Regola del Poverello, giacchè il giovane Paolano si era mostrato più che all’altezza delle competenze e del carisma che essa comportava, sicchè fu indubbia la sua vocazione allo stato religioso, e per questo non mancò da parte del guardiano e dei  Religiosi della casa la proposta insistente che egli restasse per sempre con loro, anche perché il suo comportamento aveva intanto suscitato molto fascino e affezione presso tutti i confratelli che rifiutavano l’idea di separarsi dal giovanissimo ospite. Vi è chi afferma che Francesco abbia di fatto coltivato il proposito di abbracciare definitivamente la Regola Francescana anche se in un secondo momento, durante il Noviziato, abbia avuto dei ripensamenti che lo portarono ad abbandonare l’Ordine, ma tale ipotesi risulta priva di fondamento.[5]

  Resta fermo tuttavia che i connotati di povertà e di umiltà specifici di San Francesco di Assisi dovettero lasciare una grossa impronta nella formazione umana e cristiana del giovane Francesco di Paola, se è vero che egli si immerse con zelo e disinvoltura nell’osservanza regolare religiosa proposta dal convento di San Marco Argentano traendone vantaggio egli stesso e determinando anche moltissime soddisfazioni per i confratelli che lo videro più che idoneo a menare il loro stesso stile di vita. E’ certo che egli avesse vissuto serenamente e con molta tranquillità quell’anno di prova  e che non avesse incontrato motivi di realizzazione personale nella stessa Regola francescana non disdegnandone affatto il carisma; così pure è proponibile che egli avesse preso in seria considerazione, pur non realizzandola nei fatti, l’idea anche vaga di poter restare per sempre con i frati Minori.

  Francesco dovette tuttavia interpretare che il disegno di Dio nella sua vita era di natura differente e non corrispondeva pienamente al proposito della vita francescana. Voleva andare oltre, scoprire quale fosse il senso reale della sua vocazione; avvertiva probabilmente di essere votato alla vita religiosa, ma non era convinto su quale dimensione questa dovesse impostarsi; aveva compreso certamente che il Signore lo chiamava più strettamente a sé, ma non riusciva a rinvenire lo specifico di questa chiamata né le modalità con cui questa si sarebbe realizzata.

  Animato dalla certezza che il Santo di Assisi non lo preferiva nel numero dei suoi Religiosi, pensava comunque che lo stesso Patrono potesse aiutarlo con la sua potente intercessione presso il Padre a scoprire cosa Questi volesse esattamente da lui. Cosicché, una volta congedasi dai Religiosi del convento di San Marco Argentano, si premurò immediatamente di chiedere ai genitori che lo accompagnassero in un lungo pellegrinaggio con destinazione Assisi. Il viaggio, che sarebbe stato affrontato molto volentieri nonostante l’assenza di garanzie e i pericoli che comportavano gli spostamenti dell’epoca doveva essere motivato innanzitutto dalla comune devozione che vi era in Francesco e nei suoi genitori nei confronti del Santo di Assisi e contemporaneamente anche dalla volontà del giovane Francesco di scoprire con l’ausilio del Poverello il progetto di Dio nella sua vita.

  Alcuni elementi che ci introducono in quella che successivamente sarà la risposta definitiva a tale interrogativo li possiamo riscontrare già in alcuni particolari della vita del piccolo Francesco che non avevamo menzionato in precedenza: scrive il Roberti che, nel periodo della sua permanenza nel convento di San Marco Argentano “Non pago di aver ridotto ad un paio di ore il suo riposo notturno, che, come già nella casa paterna, prendeva nel suo nudo suolo; non soddisfatto dei suoi digiuni quasi giornalieri, volle pure cingersi i lombi con cilizio, e ogni notte flagellare a sangue le sua carni innocenti. La penitenza, che in lui, fin dai più teneri anni, si era manifestata come un istinto di natura, d’allora in poi divenne, la passione predominante del suo essere”[6] sottolineando così che la caratteristica peculiare e distintiva di Francesco era stata sempre quella dell’ascesi e della mortificazione corporale, coefficienti della penitenza quale via di conversione e del primato di Dio sulla materia; tale prerogativa sembrerebbe essere connaturale al giovane Francesco giacchè egli l’aveva messa in atto sin dalla prima fanciullezza anche nella casa paterna senza che dalle privazioni e dalle rinunce scaturisse alcun risvolto compromettente ed esiziale per la salute e per il generale sostentamento del fisico. Si direbbe che addirittura, nell’assumere il latte materno, Francesco se ne nutrisse solo dopo ripetute insistenze della mamma, quanto bastava per trarre l’alimento necessario e che all’età di 7 anni osservasse già l’astinenza dalla carne e dai latticini. Durante il soggiorno a San Marco Argentano, come scrive l’Anonimo “… lasciò da parte ogni abito secolare -mutande, camicie ecc - , eccetto uno di stoffa spregevole, e cominciò a vivere di strettissimo magro, mentre gli altri mangiavano carne e altri cibi. Tale regime di vita egli mantenne scrupolosamente fino a d oggi, anno 1502, in cui ho scritto questo compendio biografico.”[7]

  Attitudini che rendono già l’idea dell’ascetismo monastico che andrà a caratterizzare in futuro la vita del Paolano penitente e che emergono timidamente già nell’infanzia, associate anche alla continua orazione e alla familiarità con Dio, osservata questa nel sano isolamento dal mondo.

  Il progetto di Dio nella vita del giovane Francesco si sarebbe rivelato quindi inerente alla vita religiosa anche di stampo cenobitico, tuttavia non limitativa alle comuni aspettative della vita consacrata già esistenti, ma con un ulteriore slancio di mistica attitudine per la materia spirituale che non era propria di altri Istituti Religiosi.

  Infatti Francesco nell’affrontare il lungo viaggio ad Assisi riscontrerà egli stesso che questi germi di vocazione verranno inesorabilmente alla luce in conseguenza di un lungo itinerario di meditazione che sarà stato favorito dallo stesso viaggio in Umbria che conoscerà delle tappe significative che gli daranno occasione di impostare la sua vita secondo il solco di un’impronta più profonda.

  Partì per Assisi accompagnato da Giacomo e da Vienna nel 1430, secondo il parere di alcuni vestendo ancora l’abito votivo francescano, ipotesi questa tuttavia smentita da altri. [8] Essendo questa una tappa del cammino che la famigliola doveva percorrere, prima di raggiungere la cittadina umbra, si fermò a Roma, dove sarebbe rimasto molto affascinato di sostare in preghiera sulla tomba degli apostoli e di riconsiderare la sede del successore di Pietro se non fosse rimasto sconcertato dalla constatazione che i ministri del Signore, nella persona degli ecclesiastici e dei cardinali, erano vittime di un sistema di lussuria e di corruzione che i imperversava oltre che nella Chiesa anche nell’intera società: lo sfarzo che si riscontrava nell’abbigliamento e nei costumi degli uomini di chiesa era agli occhi del giovincello molto paradossale e ingiustificabile, dovendo la Chiesa dispensatrice della grazia di Dio anche e soprattutto attraverso la testimonianza di vita dei suoi pastori e Francesco non mancò di manifestare il suo disappunto quando lui e i genitori si imbatterono in una carrozza elegantemente ornata sulla quale viaggiava un cardinale accompagnato da buona scorta di servitù. Il ragazzino, superando ogni indugio, rivolgendosi all’alto prelato, gli osservò che tutto quella ricercatezza e quegli agi non corrispondevano per niente alla persona e allo stile di vita del Salvatore. Il cardinale fece arrestare il cocchio e in tono paterno e comprensivo rispose al fanciullo che la Chiesa non poteva omettere di adeguarsi alla costumanza vigente dei potenti e dei facoltosi, pena la possibilità di non essere da questi ascoltata o considerata.

  La risposta del cardinale dovette insinuare nell’animo di Francesco un indubbio sentimento di riprovazione e di riluttanza nei confronti di una gerarchia ecclesiastica che trovava perfino le legittimazioni della sua voluttà e vanità nella necessità di adeguamento ai costumi dei potenti, quando Cristo nel suo Vangelo impone un orientamento del tutto opposto che prevede anche la persecuzione e la denigrazione pur di andare controcorrente e certamente tale contestazione interiore sarà il costitutivo perenne della vita e della scelta di spiritualità del Paolano.

  Davanti alle ossa del Santo di Assisi, Francesco di Paola sostò a lungo in preghiera restando affascinato del carattere di sacralità e di raccoglimento che offrivano tutti i luoghi francescani, ivi compresa la Porziuncola e la chiesa di San Damiano. Nella stessa chiesa che ospita tuttora i resti mortali dell’Assisiate si vuole che il Nostro avesse emesso  anche un voto di verginità.[9]

  Sulla via del ritorno il giovane paolano ebbe modo di visitare altri luoghi che segneranno definitivamente la sua vita: non si sa con certezza se egli abbia raggiunto il Santuario della Madonna di Loreto, ma è certo che si sia recato a Spoleto per poi raggiungere il monastero benedettino di Monteluco, dove rimase affascinato dello stile di vita eremitico dei monaci e della loro dedizione alla penitenza e all’umiltà. Altra tappa importante nel tragitto di ritorno del nostro Francesco fu Montecassino, famosa abbazia benedettina a pochi chilometri dalla cittadina di Cassino, che si può definire il quartier generale della rinascita monastica d’Occidente con San Benedetto da Norcia, che tuttavia in quel periodo particolare della sua storia stava attraversando una certa crisi quanto all’esemplarità di vita dei monaci e al comune andazzo della vita monastica. In ambedue i monasteri il giovane ebbe modo di confidarsi con i monaci ivi residenti sul probabile orientamento della sua scelta vocazionale facendo sempre più chiarezza in se stesso intorno allo specifico di vita di speciale consacrazione che avrebbe dovuto abbracciare.

  Fu infatti il ritorno a casa dopo il pellegrinaggio a determinare la decisione ponderata e attenta di Francesco che avendo escluso categoricamente che Dio lo chiamasse alla sua sequela in uno dei conventi religiosi già esistenti, optò per la scelta eremitica.

  Sia la delusione della lussuria e dello sfarzo riscontrato a Roma nella classe clericale, sia le visite ai due monasteri suddetti come pure la preghiera al Santo di Assisi avevano inculcato nel suo spirito il desiderio di coltivare quanto era già in germe nella sua persona di giovane innamorato di Dio, accrescendo così il rigore delle mortificazioni corporali e delle privazioni con cui soleva coltivare il suo amore al Signore sin dalla più tenera età. Gli altri Istituti Religiosi quali l’Ordine Francescano lo avrebbero comunque edificato e anche egli vi avrebbe apportato un indiscusso contributo di perfezione e di santità, tuttavia non gli avrebbero consentito di mettere a frutto i carismi che lo Spirito Santo aveva già infuso in lui, i quali richiedevano uno spazio maggiore di solitudine e di lontananza dal mondo per coltivare la penitenza attraverso le pratiche ascetiche proprie del monachesimo.

  L’esperienza del deserto ebbe inizio per il Paolano in un podere di proprietà dei genitori a poca distanza dalla cittadina, che con molta probabilità era coltivato a vigneti.[10] Francesco intraprese il suo eremitaggio in una tenda di frasche collocata nel campo, dove iniziò a menare vita solitaria mentre i genitori periodicamente lo assistevano nelle necessità. Quell’ambiente non si rivelò tuttavia favorevole per lo scopo che il giovane Francesco si era prefissato, poiché ubicato pur sempre in un luogo di passaggio per molta gente e pertanto ben lungi dalla lontananza e dalla solitudine che sarebbe stata necessaria per dare l’esclusiva alla vita spirituale, sicchè risolse di scegliere un altro speco in una zona più raccolta e ritirata che riuscì a trovare in una piccola apertura sulla roccia in una collina nei pressi dell’attuale Santuario di Paola, che egli stesso provvide a completare negli scavi con i mezzi procuratigli dai genitori. Qui, ad eccezione di qualche rarissimo passante di passaggio, l’unica compagnia di cui poteva disporre Francesco era quella degli animali selvatici che vagavano nei dintorni, come pure le asperità della natura incontaminata ma ostile che offriva un panorama del tutto selvatico nella flora.  Per alcuni anni, precisamente per tutto il periodo dell’ adolescenza, Francesco visse in quella dimora tutt’altro che ospitale coltivando intensamente la solitudine e l’isolamento per una dedizione sempre più costante e motivata alla preghiera e alla contemplazione del divino, favorita dalla rigidità della natura poco generosa che lo circondava e dalla lontananza dalle attrazioni del secolo e dalle proposte della mondanità. Gli agiografi scrivono che per tutto il periodo della grotta furono parecchie le mortificazioni corporali e i digiuni a cui Francesco si sottomise per dominare le pulsioni della carne e avere la meglio sulle passioni e sugli istinti; si cibava di quanto la natura del mondo antistante gli offriva e cioè di radici, erbe, bacche e di altri alimenti selvatici che il bosco potesse offrire adagiandosi sulla rudezza dei massi e delle pietre di cui la grotta era composta. Il Roberti ci delucida anche sulle lotte che Francesco in questa speciale situazione dovette sostenere contro il demonio che secondo delle informazioni in suo possesso lo ossessionò con ripetute visioni di bellezza femminile tendenti a distoglierlo dal suo proposito di vita solitaria; più di una volta il principe delle tenebre lo avrebbe tartassato per mezzo di urla strepitose[11] e altre provocazioni che il giovane fraticello affrontava e superava mortificando le membra nelle gelide acque del fiume Isca che tuttora scorre nei pressi del medesimo speco.

  Si racconta per leggenda che dal contesto delle lotte fra Francesco e il principe delle tenebre sia scaturita la costruzione del “ponte del diavolo”, che tuttora, attraversato e contemplato da centinaia di pellegrini, mette in comunicazione le due sponde del fiume Isca ed è parte integrante della “zona dei miracoli” dell’attuale Santuario di Paola: dovendosi costruire successivamente un ponte che favorisse il passaggio da una riva all’altra del fiume, si vuole che il diavolo, sempre insidioso nei confronti del nostro Santo, gli fosse apparso in una certa occasione rivolgendogli una proposta molto invitante e accattivante, secondo la quale il ponte sarebbe stato costruito prodigiosamente dallo stesso demonio a condizione che Francesco concedesse agli inferi la prima anima che lo avrebbe attraversato. Francesco accettò la proposta ma un a volta che il diavolo ebbe edificato il suddetto ponte, ricorse all’astuzia di far passare attraverso di esso un cane. Nonostante le sue proteste il diavolo dovette arrendersi ad accettare l’anima di quell’animale. Quella della lotta contro le seduzioni del diavolo è sempre stata una caratteristica immancabile presso tutti gli eremiti e anche nella spiritualità antica dei Padri del deserto era concezione che il diavolo si aggirasse proprio nei luoghi solitari, pronto a tentare di distogliere coloro che avessero il fermo proposito della vita ritirata in vista di Dio, così prescindendo dalla veridicità o meno di questo episodio narrato è comunque proponibile che Francesco sia stato oggetto di continue provocazioni demoniache contro le quali lottare strenuamente.

  La contemplazione nella grotta non fu tuttavia l’ultima prospettiva di Francesco, giacchè dopo non molti anni riscontrò come un po’ alla volta il suo deserto diventasse anche oggetto di attenzione da parte di non poca gente di passaggio che a lui si avvicinava per trovare una parola di conforto e di consiglio, alle quale Francesco non negava esortazioni e moniti al ravvedimento, alla conversione a Dio e alla preghiera. In modo tale che alla solitudine in vista di Dio si associava in Francesco anche la dimensione dell’apostolato, secondo le tappe di un itinerario che come vedremo in seguito era cosa comune a tutti gli anacoreti e gli eremiti delle origini e dei secoli poco anteriori a lui.

  Fu nel 1435 che alcuni uomini, affascinati dallo stile di vita serena anche se sacrificata che viveva il nostro Paolano, decisero di condividere con lui la stessa esperienza di vita eremitica. Il che avvenne dopo che Francesco, abbandonato l’antro prediletto, si era costruito una piccola celletta nella quale accogliere il sempre più crescente numero di persone desiderose di incontrarlo e di conferire con lui. Fra tanta gente si distinsero infatti tre giovani che rivelarono come reale e ponderato il proposito di condurre la stessa vita che Francesco aveva condotto fino ad allora, entrando cioè anche loro, assieme a lui e sul suo esempio, nell’ordine della contemplazione eremitica. I nomi che gli agiografi attribuiscono ai nuovi arrivati sono: Frà Fiorentino, il cui cognome è rimasto ignoto, Frà Angelo Alipatti da Saracena, Frà Nicola da San Lucido; tutti di vita virtuosa e fermi nei propositi di perfezione che accanto al Paolano si stavano prefiggendo, e che lo stesso provvide a vestire il suo medesimo abito e insegnando loro a vivere la vita quaresimale. Con il loro arrivo, si provvide alla costruzione di tre cellette e di una cappella nelle immediate vicinanze che diede vita al primo romitorio di quello che diventerà in futuro l’Ordine dei Minimi, che si assimilavano in tutto nell’abito e nello stile di vita del Fondatore, vestendo in abito rozzo e grezzo, nutrendosi di cibi precari e leggeri e camminando scalzi, si dedicavano alla preghiera e al lavoro oltre che al ritiro nella propria cella. Si discute tuttora se Francesco avesse ottenuto, già nel 1435, l’autorizzazione dell’autorità ecclesiastica per la fondazione della sua nuova famiglia. Si direbbe che sulle prime il problema giuridico e normativo non si pose se non sommariamente, poiché l’andamento della vita eremitica era del tutto spontaneo e l’organizzazione, grazie alla buona volontà e alle disposizioni degli stessi frati, era molto semplice e immediata; tuttavia è da ritenersi che una prima licenza, anche solo orale sia stata data al Paolano da parte della Curia locale nella persona dell’allora arcivescovo di Cosenza Mons. Bernardino Caracciolo. L’approvazione ufficiale del movimento in diocesi si ebbe nel 1471 con la bolla Decet nos ad opera di Mons. Pirro Caracciolo, che fu arcivescovo di Cosenza a partire dal 1453 e che avrebbe conosciuto personalmente Francesco già nei primi anni del suo ministero, lodandone le virtù ed elogiandone il carisma, concedendogli anche il riconoscimento di personalità ecclesiastica quale eremita. Anche in virtù di questi elementi, c’è chi afferma che la data ufficiale della fondazione della comunità eremitica sia avvenuta non prima del 1452 e non già nel 1435. La prima denominazione ufficiale che il movimento ebbe da parte di Caracciolo fu quella di Frati eremiti di San Franceco di Assisi, dal nome della chiesa del romitorio che il Paolano aveva appunto dedicato all’Asssisiate.

  A contribuire notevolmente al disbrigo delle pratiche giuridiche di approvazione della congregazione di Paola fu il dottissimo e zelantissimo P. Baldassare De Guttrosis da Spigno[12], che, oltre a richiamare la già ben disinvolta attenzione di Pirro Caracciolo sul romitorio paolano, ebbe l’intenzione di presentare il progetto di istituzione del movimento direttamente a Roma, soprattutto perché intenzionato a presentare la nuova famiglia paolana come elemento essenziale nell’opera di riforma e di restaurazione morale della Chiesa. La richiesta al pontefice Sisto IV si avvalse di altre due suppliche in aggiunta alla Decet nos e ottenne che il papa intervenisse con una verifica intornoa ai contenuti della suddetta Bokla affidata al Vescovo di San Marco Argentano.[13] Lo stesso Sisto IV nel 1474 approverà la nuova congregazione eremitica paolana una volta confermati i contenuti della Decet nos. Verranno riconosciuti alla congregazione di Paola i privilegi concessi agli Ordini religiosi già esistenti. Accanto all’approvazione ecclesiastica Francesco e il suo movimento godettero anche dell’approvazione da parte della corte regale di Napoli che sostenne il movimento autorizzando la costruzione dei conventi il tutti i territori del Regno; cosa che di fatto si verificò molto presto, visto che progressivamente la congregazione andò conquistando sempre più notorietà grazie a nuove fondazioni operate anche su delega del Santo.

   Del 1452 è la costruzione di una seconda chiesa accanto ad un altro luogo in cui si edificarono nuovi spazi in cui accogliere i nuovi membri della famiglia religiosa che intanto si andavano aggiungendo al primitivo cenobio; si vuole che il perimetro di questa nuova costruzione sia stato suggerito in sogno al Paolano da parte di San Francesco di Assisi che avrebbe caldamente invitato il frate di Paola a demolire le prime fondamenta del tempio che aveva già costruite per realizzare l’intera struttura secondo un nuovo progetto da lui suggerito.[14] La nuova struttura ecclesiale si realizzò grazie al concorso di molta gente munifica e dedicata che contribuì con cospicue elargizioni, essendo ormai l’eremita paolano e i suoi primi frati oggetto di amore e di stima da parte del popolo che non mancava di manifestare in tutti i modi il proprio affetto e non mancarono neppure le donazioni da parte di parecchi personaggi facoltosi.

  Siffatta benevolenza da parte della gente viene attestata come meritoria soprattutto per le virtù, la bontà, l’umiltà e la comune docilità di spirito che caratterizzavano questi religiosi al seguito di Francesco, tutte prerogative umane che vengono testimoniate con un certo entusiasmo a più riprese oltre che dall’Anonimo anche dai testi del Processo Casentino, anche in appendice ai racconti di avvenuti prodigi o interventi miracolosi da parte del Santo; leggendo infatti non poche testimonianze del suddetto processo, esse concludono la loro esposizione con la descrizione morale di Francesco come uomo irreprensibile di santa vita, di umiltà e di penitenza, dedito alla costruzione dei conventi e al lavoro assiduo.[15]

 

1. 1. 1 Una parentesi sui miracoli

 

  A proposito degli eventi prodigiosi di cui il Paolano fu protagonista durante la costruzione del convento di Paola come pere a paterno Calabro e dovunque egli abbia vissuto occorre innanzitutto rilevare che essi si contano a dismisura forse come mai nella vita di nessun altro Santo, tanto che la tradizione si avvale di una famosa espressione secondo cui  A mio giudizio sembrerebbe che diversi fatti miracolosi fra quelli riportati siano piuttosto la risultante di elaborazioni gratuite da parte di chi ha valuto esaltare con ogni mezzo l’indiscussa grandezza ”Era un miracolo quando non faceva miracoli.” Tutti questi eventi, che risultano sempre essere la motivazione principale per cui un uomo è seguito dal popolo che fa ressa su di lui, hanno interessato la maggior parte della vita di Francesco di Paola ed è quasi impossibile stendere una sua biografia senza riferirsi agli eventi prodigiosi verificatisi in lui. Ad illustrarci il grosso dei miracoli di questo Santo oltre che l’Anonimo è soprattutto la molteplicità delle testimonianze del Processo casentino nelle quali si riscontrano interventi di varia natura da parte del Paolano che si erge quasi a risolutore di moltissimi problemi di natura medica, esorcistica, taumaturgica. A mio avviso, l’attenzione verso i soli fatti prodigiosi di un uomo di Dio è insufficiente e anzi potrebbe essere lesiva ad ogni tentativo di volerne esaltare l’attualità della figura, del personaggio carismatico e devoto, nonché il suo contributo al riassetto della società. Parlare solo di miracoli non aiuta a capire il valore di un Santo.E soprattutto intrattenersi su quegli eventi di secondaria importanza che sono innecessatri a mostrare la grandezza di Dio in un santo potrebbe apportare il rischio che questi possa essere interpretato alla stregua di una figura mitologica che possiede il miracolo come asso nella manica su ogni situazione. Per questo motivo, ci si premurerà di tratteggiare, fra tutti i miracoli, quelli che maggiormente ci aiutano a vedere in Francesco l’uomo di Dio e in Dio colui a cui tutto è possibile per il beneficio dell’uomo e che richiama l’uomo alla comunione con sé. Tali sono ad esempio i miracoli che incontreremo successivamente dal convento di Paterno in poi, che vengono presi in seria considerazione e che non mancheremo di visionare anche in rapporto alla loro intrinseca edificazione sull’amore che Dio ha nei confronti di tutti, soprattutto di quanti si affidano a lui e anche durante la costruzione del convento di Paola si narrano eventi prodigiosi molto significativi. Il santo calabrese era tuttavia sempre solito insistere sulla provenienza puramente divina di siffatti eventi prodigiosi dei quali non mostrava alcun motivo di vantarsi o di manifestare altezzosità e vanagloria sottolineando altresì che qualsiasi miracolo non si realizza se non in conseguenza della nostra adesione e della fede sincera in Dio.

   Si dice parecchie volte che Francesco mentre lavora nella costruzione del convento con un solo gesto di una trave ne fa due; accende le candele con il solo schiocco delle dita, tocca con la mano il fondo della padella mentre in essa brucia dell’olio bollente senza ustionarsi, immerge le mani nell’acqua bollente;[16] cammina a piedi nudi fra rovi, spine, pietre insidiose senza provare alcun fastidio e non è raro il fenomeno della levitazione delle pietre durante i lavori di edificazione della struttura, poiché più di una volta rende pesanti come un fuscello grossi macigni che vengono così trasportati senza difficoltà. Ma uno degli interventi prodigiosi che meritano maggiore attenzione può essere riscontrato  nelle “pietre del miracolo”, che tuttora si osservano nello strapiombo a sinistra guardando dal piazzale del Santuario: un giorno si verificò una frana fra le montagne attigue alla zona dell’edificio che provocò la pericolosa caduta di due possenti massi che, staccatisi da una delle montagne, stavano per precipitare violentemente sulla struttura del convento. Francesco se ne avvide tempestivamente e gridò in loro direzione: “Fermatevi, per carità!”; al che i due consistenti macigni restarono sospesi in bilico contro ogni legge di gravità. Se avessero impattato sul convento, avrebbero provocato vittime e danni incalcolabili.

  Durante la costruzione del convento, ci si era provvisti di una fornace per l’approntamento della calce. Essa un giorno prese inspiegabilmente fuoco e le fiamme, sempre più minacciose e imperanti, avevano conquistato tutta la stanza, e stavano divorando le pareti e le travi della stessa, al punto che era ormai in procinto di cadere. Allarmati, i frati addetti alla costruzione chiamarono il loro maestro, il quale li invitò a recarsi a refettorio per la consumazione del pranzo; mentre si allontanavano, videro Francesco entrare nella fornace in mezzo alle fiamme. Al loro ritorno lo ritrovarono incolume, sano e salvo, di fronte alla fornace che era tornata come nuova, senza alcun segno di abrasione.[17]

  Sempre durante la costruzione del convento, essendo scomodo e fastidioso ricorrere al fiume Isca per provviggionarsi di acqua, si necessitava che vi fosse una fontana nei paraggi della struttura in costruzione e la cosa aveva suscitato anche la mormorazione di non pochi frati. Francesco colpì con un bastone una roccia, che si aprì immediatamente facendo sgorgare una sorgente viva di acqua che ancora oggi scorre emettendo lo stesso quantitativo costante di acqua in ogni stagione, anche in tempi di siccità. Viene denominata “fonte della cucchiarella” poiché è invalso l’uso di bervi con l’utilizzo dei mestoli e dei cucchiai. In un’altra circostanza, essendosi recato con altri dieci operai a Guardia Piemontese per trasportarvi alcune travi, ve ne era una dalle dimensioni sproporzionate, difficile da trasportare. I dieci trasportatori non riuscivano a sollevarla, ma Francesco ne alleggerì notevolmente il peso al punto che a sollevarla fu lui stesso, senza l’aiuto di nessuno.[18]

 Fra gli eventi miracolosi narrati non mancano le guarigioni e gli esorcismi che i testi dei processi Calabro e Cosentino riportano in numero elevatissimo. Alcuni di essi sono stati considerati importanti ai fini della canonizzazione. Sia a Paola come pure poi a Paterno Calabro, Francesco operava tante e tali guarigioni da costituire un peso e un fastidio per i medici del posto, che si vedevano spiazzati di fronte ai successi che non otteneva la scienza ma di cui era capace la fede.     Del resto, succedeva non di rado che Francesco esortasse gli infortunati a non recarsi dal medico ma ad avere fede nel Signore, poiché sarebbero stati guariti. Il che di fatto puntualmente si verificava.[19]

  Un signore che si era fratturato un ginocchio provava un dolore assillante e insopportabile; Francesco intervenne ponendo una mano sulla parte offesa e il male sparì immediatamente come se non vi fosse mai stato.[20] Un muto riacquistò la parola durante una sosta in chiesa in compagnia dell’umile eremita[21], una donna sterile partorì prodigiosamente[22].

  L’Anonimo racconta che i demoni che entravano in possesso delle persone ossesse provavano fastidio per quel “barbuto sozzo ma aggiustato, mangiatore di radici” poiché  era per loro di ostacolo con la sua vita umile e santa. L’espressione suddetta che descrive spregevolmente  Francesco viene messa in bocca a una ragazza posseduta da una legione di diavoli, che, interrogati dall’eremita, dicono di essere una legione e di abitare nel bosco dove vive uno stormo di corvi.  La loro intenzione sarebbe quella di distruggere l’Italia, ma ne sono impediti dalla santità e dall’austerità di vita dello stesso Francesco; non appena però questi si fosse allontanato avrebbero persistito nel loro intento. Francesco impone ai diavoli di uscire dal corpo di quella povera fanciulla, ma essi avanzano pretesti per potervi restare e continuare a soggiogarla. Sicchè il frate afferra la ragazza violentemente per i capelli intimando ai demoni di uscire da quel corpo e questi finalmente obbediscono, lasciando libera ed esanime quella giovane poveretta, che riacquista un po’ alla volta forza e vigore.[23]

   I miracoli sono sempre stati tuttavia solo una delle caratteristiche che meriteranno a Francesco il dono della canonizzazione e intanto l’essere ammirato e stimato dalla gente. Più che gli eventi prodigiosi, di questo buon uomo vanno apprezzate le virtù e la capacità di interagire con la gente con molta umiltà, mansuetudine e pazienza, sopportando ogni cosa con amore e furono appunto queste la caratteristiche portanti della sua vita spirituale che egli trasse dalla grotta, e che continuò a coltivare in tutto il percorso della sua vita.

   Nelle tre Suppliche presentate a Roma da Pirro Caracciolo successive al 1471 per la conferma della Decet Nos si esaltano da parte di Mons. Pirro Caracciolo le virtù e le qualità della famiglia eremitica come sommamente apprezzabili e di grande edificazione per tutto il popolo della zona. Nella Supplica Dudum Devota  lo stile di vita dei membri della nuova famiglia paolana sono presentati con le stesse caratteristiche che la Decet Nos attribuiva al loro Maestro e Fondatore: “non mangiano carni, uova, né alcuna specie di latticini, ma usano sempre cibi quaresimali; camminano con sandali aperti e con una sola tunica e, all’occorrenza, anche una sottoveste; dormono così vestiti sopra la paglia; osservano digiuni continui fino a quando si può resistere fisicamente; si dedicano ad ore stabilite alla preghiera e ad altre opere pie; vivono di elemosine, non hanno sulla in proprio e non toccano denaro; lavorano alla costruzione del convento; le elemosine non solo sono procurate magno sudore, con la questua, ma anche distribuite ad altri… La vita di Francesco e dei suoi eremiti ha giovato moltissimo e tuttora giova alla salvezza spirituale di molti, e tante opre buone sono state compiute per mezzo suo, opere di rappacificazione e di pace… e molti mali sono stati evitati e si evitano tuttora e un grande esempio di vita santa viene offerto a molti.”[24]

   Come avremo modo di visionare in seguito, la vita di Francesco quanto ai digiuni, astinenze e vessazioni corporali sarà sempre molto più rigida e sacrificata rispetto a quella dei confratelli: questi potranno cibarsi di qualsiasi alimento di magro, mentre Francesco sceglierà di non mangiare pesce  e di osservare incomparabili veglie di preghiera e digiuni assillanti che renderanno impossibile che alcuno dei suoi seguaci lo possa imitare alla perfezione. Con l’incremento dei religiosi disposti a seguire lo stesso stile di vita del penitente paolano, occorre organizzarsi diversamente ricorrendo a spazi più ampi dove poter vivere adeguatamente la propria religione e si necessita anche di una disciplina normativa che organizzando la comunità eremitica, realizzi anche un preciso schema di convivenza; cosicché l’Anonimo ci informa che la prima comunità di frati durante la costruzione del convento di Paola ricevette dal suo fondatore una Regola “ e un modo di vivere in povertà, castità, obbedienza, osservando per tutto il tempo della loro vita una vita quaresimale.”[25]   La vita quaresimale sarà sempre la caratteristica portante della spiritualità e delle normative della congregazione e sarà anche la condizione essenziale perché si possa entrare nella famiglia di San Francesco di Paola accettando le relative rinunce e i sacrifici che essa comporterà in tutte le epoche. Essa riguarda un particolare stile di quaresima perpetua che comporterà una disciplina fisica e soprattutto un rinnovamento spirituale della propria persona in vista del ritorno a Dio.

  E’ da osservarsi che la fecondità apostolica si ravvisa molto spesso proprio in quei soggetti raccolti e solitari che inizialmente non coltivano il proposito di comunicare con il mondo esterno ma che successivamente si ritrovano ad interagire con la gente in virtù dell’ideale che essi coltivano con fede; tale è il caso di Francesco di Paola, paragonabile a tanti altri eremiti, la cui dimensione di contatto con il mondo scaturì nient’altro che dalla sua impostazione di vita e dal carisma che egli si ritrovò a coltivare e questo ci impone di rivedere anche i criteri stessa della nostra pastorale che riteniamo efficiente solo quando si componga di attività e iniziative che molto spesso rischiano di mostrare la loro vacuità di contenuto. E’ innegabile invece che la qualità del servizio ministeriale dipenda dalla previa dedizione di se stessi al mistero di Dio e alla familiarità personale con il sacro, che è destinata a trasparire successivamente nelle nostre azioni: nella misura in cui ci si affascina  di quanto è oggetto della nostra contemplazione della nostra ammirazione devota, ci si dedica con rinnovato zelo nella preghiera e ci si immedesima nella grandezza dell’amore di Dio che per primo nella sua misericordia tende a raggiungere l’uomo per richiamarlo alla comunione con sé, si sarà qualitativamente capaci di rendere anche altri entusiasti della nostra fede e con la nostra convinzione di Dio si sarà in grado altresì di rendere anche altri entusiasti della nostra stessa esperienza realizzando così un valido ministero già nella nostra stessa quotidianità.

 

1.2 Insegnamenti del Santo e famose locuzioni

 

    Occorre rilevare che San Francesco di Paola merita molta stima e devozione soprattutto per la sua persona completa da uomo ideale che sa affinare in se stesso bon senso, razionalità, rettitudine morale con le caratteristiche della fede e della devozione che conducono a costruire la persona secondo giusto equilibrio fra le qualità umane e l’affidamento al divino.

   Ragione e fede sembrano infatti collimare e procedere di pari passo nella vita di quest’uomo senza che l’una prevalga sull’altra secondo un equilibrio che si richiede a tutti gli uomini di fede.

  Egli sa valutare ogni scelta con molta ponderazione, soppesare i pro e i contro di ogni decisione personale o collettiva e raggiungere la soluzione di tutti i problemi con molta serenità e risolutezza guidato dal raziocinio oltre che dalla fede in Dio.

  In effetti vi sono dei momenti della sua vita in cui egli agisce con quella che potrebbe sembrare imprudenza e istintività o mancata riflessione sulle cose e sulle situazioni, come ad esempio quando affronta determinati viaggi privo di denaro e di mezzi di sostentamento, ma in quei causi vi è sempre la cognizione di causa preceduta da opportuna ponderazione che occorre anche affidarsi alla grazia di Dio oltre che prendere iniziative personali e che a risolvere i problemi può intervenire la Provvidenza, che in tutti i casi sussiste anche nella misura dell’inimmaginabile; ferma restando la nostra buona volontà e il nostro impegno, in Essa bisogna pur credere e su di Essa occorre anche contare, accettando che davvero nulla è impossibile per Dio e tralasciando pertanto il nostro connaturale razionalismo esasperato. Prova ne sia il fatto che Francesco potrebbe eseguire determinati miracoli anche senza chiamare in causa altre persone; oppure realizzarli in situazioni molto più comode rispetto a quelle in cui molte volte viene a trovarsi nel rendersi strumento della divina onnipotenza. Come ad esempio, quando si troverà a viaggiare alla volta della Sicilia, affamato, potrebbe far comparire il pane nella sua stessa bisaccia senza la necessità di doverlo chiedere in elemosina ad alcuni viandanti; che non ne hanno, ma ai quali lo fa trovare prodigiosamente. Potrebbe anche provvedere lui stesso a collocare i ferri agli zoccoli del suo asinello che (come vedremo) lo accompagnerà sulla strada verso Napoli, senza la necessità di dover perdere tempo prezioso con un maniscalco che esige di essere pagato. In quella occasione, l’asinello restituisce immediatamente i ferri nonostante siano saldati alla perfezione Ancora, potrebbe realizzare qualche prodigio anche nel silenzio facendo in modo che nessuno lo osservi, eppure parecchi miracoli vengono eseguiti pubblicamente. Se invece egli preferisce assumere determinati atteggiamenti anche nell’eseguire i miracoli è perché nonostante la sua intelligenza e la prudenza nel gestire le cose, gli viene spontaneo confidare nella grazia di Dio e nella sua continua assistenza onnipotente, lasciando a Lui il diritto di intervenire secondo la sua prerogativa di onnipotenza e inoltre intende dimostrare anche a tutti i suoi interlocutori che Dio davvero può fare tutto, anche senza il concorso o la volontà dell’uomo. Meglio ancora, egli vuole dimostrare che l’amore di Dio può veramente tutto e valica di gran lunga le nostre presunzioni e la smania di grandezza da parte nostra. Con il suo stesso agire quindi Francesco si mostra anche apostolo ed educatore, apportatore del Vangelo nella piccolezza in cui si trova a vivere e ad operare e apportatore della novità di salvezza per cui si sente chiamato ad essere apostolo oltre che discepolo.

  Per questo Francesco si rende anche educatore, formatore, inculcatore di valori e propugnatore di virtù.

    A Paola erano ormai interminabili le folle che accorrevano da diverse parti del circondario per incontrare il buonissimo eremita che aveva sempre una parola di conforto per tutti e si mostrava generoso di attenzioni, consigli, esortazioni spirituali. Gli sproni più ricorrenti della sua predicazione e del suo ministero si incentravano soprattutto sulla  conversione di cuore a Dio, sulla fede e sul ravvedimento e la perfezione di vita.

  Francesco esortava ripetutamente a cercare sempre Dio e onorarlo nelle intenzioni e nelle azioni; Dio era al centro della sua missione di catechesi e l’imitazione del Signore Gesù Cristo era l’argomento principale delle sue esortazioni a cambiare vita e argomento valido su come impostare una nuova condotta. Non di rado offriva a tutti una garanzia nella vita secondo Dio, che si riassume in una frase semplice che ha conquistato l’attenzione di tutti i lettori della vita di san Francesco di Paola, anche i meno attenti: “A chi ama Dio tutto è possibile” con la quale non soltanto riaffermava il valore dell’onnipotenza divina ma esprima che in essa ci si poteva riconoscere tutti e di essa si poteva anche beneficiare per mezzo della fede sincera che scuote le montagne (Mc 11, 23). Proprio nel pronunciare questa affermazione egli prendeva i tizzoni di fuoco ardenti fra le mani senza ustionarsi e compiva altri miracoli. Non realizzava però interventi miracolosi né guarigioni in quanti non mostravano disposizione di cuore verso il Signore, poiché la stessa carenza di fede comportava che non fossero esauditi, e soleva affermare che Chi non ha fede, non può avere neppure grazia   Invitava alla penitenza e alla conversione a Dio soprattutto nello specifico del riconoscimento dei propri peccati, per esempio insistendo che si ricorresse al sacramento della riconciliazione, luogo di incontro con Cristo che impartisce il suo perdono e nel quale noi abbiamo l’opportunità di “pulire la nostra casa, cioè la coscienza” per essere buoni cristiani.  La coscienza veniva identificata (e di fatto è sempre stata ) dal Santo “la casa” dell’uomo individuale, ossia il luogo delle private intenzioni e dei personali convincimenti e appunto come una casa materiale va mantenuta in ordine, così anche la nostra casa intima non può non avere le nostra attenzioni di pulizia e di decoro nella rimozione delle nostre colpe. Naturalmente è necessario che alla pulizia della nostra coscienza dai peccati corrisponda anche la volontà di non commettere altri mali in seguito, cosicché Francesco esortava anche alla pratica del bene: “Fate sempre il bene.” Esortava pertanto alla carità e alle opere di bene, che lui stesso praticava senza riserve e senza imporsi limiti anche elargendo a scopi di bontà e di amore, parecchie delle elemosine che il convento riceveva dalle donazioni di terzi poiché era legittimo che si dovesse andare incontro ai bisogni del prossimo meno abbiente.    E  soprattutto imponeva che nel bene verso il prossimo si perseverasse poiché “invano si comincia il bene se lo si abbandona prima della morte e la corona di gloria viene data ai soli perseveranti.” La familiarità con Cristo e l’unione con lui era argomento decisivo dalla sua predicazione e del suo insegnamento al punto che lo anteponeva a tante sue altre esortazioni e lezioni di vita: ”Se ci siamo incontrati e mi hai dimenticato, non hai perso nulla; ma se incontri Gesù Cristo e lo dimentichi, hai perso tutto. “   

  Invitando alla pace e alla riconciliazione, soprattutto nel contesto della vita religiosa presso i suoi frati, invitava a dimenticare il torto ricevuto e perdonare il prossimo che ci ha offeso, definendo il ricordo del male ricevuto come una sorta di “freccia arrugginita” e chi non fosse stato capace di perdono “invano sta nel monastero, benché non ne venga espulso”. Ripeteremo anche in altre occasioni che egli non soleva mai tagliare i panni addosso”, ossia insinuare malelingue e pettegolezzi parlando male del prossimo e usando pregiudizi, e riprovava quanti si dessero alla maldicenza e alla cattiveria verbale.

  Poiché la lingua è uno strumento nobile e utilissimo che non di rado può condurre tuttavia al pericolo di imprudenza e di indiscrezione, Francesco coltivava con tutti il dominio nel parlare esortando a che si stesse attenti all’utilizzo della lingua affinché non si fosse lesivi con parole spropositate e offensive. Nella IV Regola approvata poi da Giulio II egli ammonisce i religiosi affinché “evitino il troppo parlare, che non è mai esente da colpa”. Il religioso, come pure qualsiasi persona di buon senso, è prudenzialmente tenuto ad evitare le parole futili e a considerare che il multiloquio può generare imprudenze, istintività con conseguenze dannose e a volte irrimediabili pertanto è sempre meglio ponderare le parole e valutare ogni argomento affinché si eviti scompiglio e dispersione con i nostri interlocutori.

  Francesca era anche araldo di equità e giustizia presso la sua gente, apportando sempre il proprio contributo a che in ogni cosa si esercitasse l’onestà e la coerenza e non si lasciava scomporre né intimorire dai condizionamenti dei potenti, anche quando questi tentassero di indurlo in tentazione o di corromperlo attraverso accattivanti donazioni: in alcuni casi era anzi molto determinato nel rifiutare elargizioni in denaro o in natura quando queste provenivano da guadagni illeciti o dovevano essere destinate ad opere di utilità pubblica o comunque a beneficio degli altri,  soprattutto dei bisognosi e in taluni casi con molto coraggio sfidava anche i potenti e i benestanti affinché non lesinassero nell’esercizio del bene e nella promozione del pubblico progresso.

  Oltretutto egli imponeva ai suoi religiosi di non toccare denaro, astenendosi egli stesso dal toccarlo e dal ricercarlo essendo esso definito il vischio dell’anima.

  Nel rimproverare i colpevoli recidivi e soggetti più ostinati nell’inadempienza Francesco voleva che in tutti i casi si moderasse l’impiego della verga con la manna e l’olio con il vino ossia la giustizia con la misericordia con la finalità di irrogare pene medicinali orientate al recupero del colpevole e alla presa di coscienza del male commesso e comunque sempre proporzionate alla gravità del caso e anche quando queste venivano inflitte dovevano essere accompagnate da atti di benevolenza e di fiducia nei confronti del reo che era sempre oggetto di emendazione piuttosto che di punizione. Quello della verga con la manna e l’olio con il vino è sempre stato il sistema più proporzionato di correzione da parte del Superiore di comunità e ancora adesso viene sempre preso in considerazione nell’impostazione di qualsiasi metodologia formativa all’interno delle strutture pedagoghe dell’Ordine dei Minimi.

  In san Francesco di Paola moltissima gente ha potuto così riscontrare anche un maestro di vita e un referente di formazione umana e spirituale che non poteva non suscitare l’attenzione di quanti lo osservavano e si ponevano all’ascolto dei suoi insegnamenti e di fatto l’attenzione che la sua comunicativa dolce, semplice e paterna era solita suscitare era cospicua ed elevata, abbracciando ogni sorta di popolo e di provenienza etnica e culturale.

 

1.3 Fondazioni fuori Paola

 

   Proprio la sua indiscussa fama di grande uomo di Dio non tardò a fare in modo che gli abitanti di altri centri cittadini limitrofi a Paola richiedessero la presenza di Francesco nel loro territorio: si voleva che il Paolano giungesse di persona anche in altre località della Calabria e che vi permanesse  anche per lunghi spazi di tempo, per essere di sostegno materiale e spirituale a tante persone che affluivano a lui. Uno di questi centri cittadini fu Paterno Calabro, località montana in provincia di Cosenza collocata ad una distanza molto considerevole dalla cittadina di Paola che aveva dato i natali al Santo. Per volere insistente della popolazione che attraverso alcuni suoi membri convinse Francesco a raggiungerla, in essa per volere dello stesso Francesco si edificò un secondo convento dell’Ordine eremitico[26]. La costruzione della struttura non impose parecchio tempo, soprattutto per la fervente collaborazione degli abitanti del luogo che si prodigavano nell’edificazione dei locali ora con le elargizioni in denaro ora con l’attiva partecipazione ai lavori. Anche a Paterno Calabro Francesco ebbe modo di distinguersi e di coltivare il proprio stile di uomo penitente e caritativo, apportando il proprio contributo nel nuovo luogo in cui era venuto a vivere temporaneamente per fondare. Si può affermare che Paterno Calabro è una delle tappe più significative che marcano la vita e la formazione personale di Francesco: anche qui egli predilige gli spazi di solitudine per dedicarsi alla preghiera e alla mortificazione corporale, intercalando momenti di comunicativa con intere giornate di deserto. Alcune volte si era costretti ad aspettare intere ore o addirittura lo spazio di interi giorni prima che il frate si decidesse ad uscire dalla sua cella ponendo fine alle sue meditazioni per incontrare la gente, e tuttavia non mostrava mai difficoltà alcuna nell’armonizzare la solitudine con l’impegno ministeriale.

  Raccontano i testi del Processo Cosentino di canonizzazione che in questo nuovo convento Francesco, in aggiunta ad altri miracoli di natura simile a quelli compiuti già a Paola (di una trave ne faceva due; con il tocco delle dita accendeva le candele; immergeva le mani nell’acqua bollente e toccava il fuoco senza ustionarsi) sia stato artefice di due prodigi destinati a rimanere memorabili nella storia dell’Ordine dei Minimi e della stessa cittadina calabrese, che ancora oggi conserva una vivissima devozione al Santo Paolano.

  Esortato dall’invidia di alcune persone del posto che mal sopportavano che Francesco godesse di una tanta e tale fama presso la gente, un certo P. Antonio Scozzetta dei Francescani inveì pubblicamente contro il frate di Paola descrivendolo dal pulpito come un ciarlatano, rozzo e imbroglione incapace di arte retorica e privo di ogni cognizione letteraria. Più volte ripeteva la sua aspra disapprovazione invogliando il popolo a distogliere le proprie attenzioni nei confronti del Santo.  In una certa occasione prese l’iniziativa di incontrarlo di persona nella cella privata del nuovo convento per ribadirgli il suo biasimo e la sua ostinata disapprovazione: lo redarguì apertamente con molteplici accuse, insinuazioni, esecrazioni e biasimi assumendo toni severi e intransigenti che mostravano di detestare espressamente la sua persona e il suo operato. Francesco lo ascoltò senza proferir parola, mostrando calma, pazienza e mitezza e senza per nulla scomporsi di fronte alle antipatiche avversioni del frate francescano che continuava a riprovarlo e a disprezzarlo in ogni cosa definendolo uno spartano villico impostore.

  Ad un certo punto Francesco si avvicinò al braciere della stanza che, acceso, sprigionava intanto vivissimo fuoco, si chinò, raccolse con le mani un considerevole numero di tizzoni ardenti senza provare il minimo fastidio di ustioni, si avvicinò al Padre Scozzetta e porgendoglieli disse: “Scaldatevi, per carità, avete freddo…”

  Lo stupore del frate francescano fu veramente notevole, tanto che improvvisamente cambiò atteggiamento nei confronti del Paolano inginocchiandosi ai suoi piedi e chiedendo perdono per quanto aveva in precedenza proferito.

  Paterno Calabro durante la permanenza del buon Eremita conobbe un altro miracolo degno di menzione, anche perché rappresentativo della reazione dei favori divini alle prepotenze dei governanti insolventi e refrattari ai bisogni del popolo.

  Occorre infatti ricordare che Francesco già da diverso tempio dedicava parte del suo ministero a favore del popolo anche contestando l’operato del monarca di Napoli Ferrante d’Aragona nel suo particolare abuso mai controllato di gravare la gente con possenti gabelli e assurde tassazioni. Nel 1447 Francesco aveva deplorato attraverso una lettera a un nobile di Montalto Uffugo Simone D’Alimena l’operato degli esattori delle tasse e più di una volta aveva reso nota la sua fama al re Ferrante non solamente quale uomo di buona vita e di costume ma anche quale sostenitore del popolo oppresso dagli oneri fiscali. Da parecchio tempo il monarca aveva deciso di accrescere la sorveglianza sul frate paolano e sul suo movimento eremitico, anche a motivo del consenso sempre più crescente del popolo casentino nei suoi riguardi: probabilmente si temeva una possibile sommossa o una reazione popolare che avrebbe fomentato lo stesso eremita paolano. I rapporti con la corte di Napoli non si erano tranquillizzati nemmeno dopo che il re Ferrante d’Aragona, nel 1473, aveva concesso il riconoscimento regale alla congregazione eremitica paolana che in virtù di tale opportunità poteva da quegli anni in poi costruire case religiose in tutto il territorio del regno di Napoli.[27] La tensione fra il frate e il monarca si era sempre più acquita per l’insistenza dell’umile frate a che si usasse giustizia e sollecitudine nei confronti del popolo. Francesco non intendeva smentire o screditare la legittima autorità sovrana del monarca, ma richiamare colui che avrebbe dovuto avere dei doveri di responsabilità nella realizzazione del bene comune a farsi carico delle incombenze a favore della gente oppressa; inoltre vi era stata anche un’altra causa ad incrementare con molta probabilità lo spessore degli attriti fra il fraticello e il monarca: consultato su quali sarebbero stati gli eventi delle belligeranze allora in atto in Toscana per la successione regia, il Paolano affermò che queste si sarebbero risolte senza problemi: lo stesso Eremita stava più volte cercando di pacificare le varie famiglie stesse che erano in lotta per la successione medesima e per le contese territoriali e questo fu uno degli impegni considerevoli di Francesco  a Paterno Calabro. Il pericolo maggiore che Francesco notava era però dovuto alla prospettiva che l’Italia sarebbe stata interessata dal dominio dei Turchi che avrebbero comportato fra l’altro una punizione severa da parte del Signore per il malgoverno di Ferrante, questi ritenuto dal Santo incapace di fronteggiare il loro pericolo.[28]

  Il re, inasprito da quelle che riteneva le insolenze di un semplice frate incolto e grossolano che si permetteva di riprendere un monarca, decise la soppressione del convento di Castellammare di Stabia ove già vivevano alcuni religiosi della stessa famiglia di Francesco. Verrà riaperto solo nel 1506. Prese poi l’iniziativa di inviare un drappello di soldati a Paterno Calabro con l’intento di catturare Francesco di Paola e condurlo in carcere sotto buona scorta. [29] Non appena la notizia dell’arrivo imminente dei soldati si sparse per la cittadina calabrese fu enorme lo sgomento e l’ansia che imperversò presso la gente del posto e che conquistò immediatamente anche i frati del convento. Si creò il panico e l’allarme generale e si temette per il destino del frate paolano che  intanto aveva ottenuto sempre più stima e consensi da parte del  popolo. Questi, messo al corrente del pericolo che stava correndo, non mutò la sua abituale risolutezza da uomo di spirito, ma mantenendosi calmo e fiducioso nel Signore si affidò alla volontà divina qualunque sarebbe stata la deliberazione dell’Altissimo sulla sua sorte personale. Rifiutò pertanto la proposta di alcuni frati e di moltissimi fedeli di fuggire in un luogo sicuro con la garanzia che la fuga non sarebbe stata scoperta dagli araldi del re e si recò nella chiesa del convento, dove, inginocchiatosi in preghiera, attese sereno e fiducioso l’arrivo dei soldati che in buona parte stavano già battendo la zona antistante il convento forse convinti che il Paolano fosse fuggito in altri luoghi della città o nei boschi.

  I militari regi non tardarono a fare irruzione nei luoghi sacri del convento. Misero a soqquadro tutti i locali dello stabile presidiandolo, piantonando ogni luogo con estrema attenzione e domandando agli astanti dove fosse Francesco. Lo cercarono in tutte le stanze e negli angoli più nascosti della casa, frugando in ogni luogo. Parecchi di essi si recarono anche in chiesa e cominciarono a rovistare tutti gli angoli del luogo sacro mentre egli, ancora genuflesso, proseguiva risoluto e devoto la sua raccolta preghiera davanti a loro: nonostante gli passassero ripetutamente davanti,  nessuno dei militari infatti notò la sua presenza, sebbene evidente. Per un ulteriore speciale  favore divino, Francesco si era infatti reso invisibile alla loro vista.  I confratelli eremiti, che invece avevano continuato a vederlo normalmente inginocchiato davanti all’altare, prima spauriti e in preda al panico, adesso cominciavano quasi a deridere quei soldati che si districavano inutilmente nelle ricerche senza accorgersi che il prigioniero era proprio sotto i loro occhi.

  Finalmente la figura di Francesco si rese possibile alle facoltà ottiche dei militari proprio quando gran parte di essi si trovavano nel punto in cui era sempre stato.  La meraviglia di quegli straniti soldati fu tanta e tale che restarono senza parole, caddero in ginocchio primo fra tutti il comandante della guarnigione, definito dall’Anonimo il “capitano della nave”, che tentennò parecchio prima di spiegare all’eremita paolano il motivo della loro irruzione: era volere del monarca che Francesco venisse arrestato e condotto al suo cospetto, tuttavia spiegò che lui e i suoi commilitoni sarebbero stati disposti a contravvenire al comando del re mantenendo intatta la libertà dell'eremita. Questi non mostrò alcun segno di ripicca né di rincrescimento nei loro confronti, comportandosi con loro come se non avesse mai saputo nulla delle intenzioni regali e come se notasse solo allora quegli stupiti militari. Comprese che il capitano della nave e i suoi commilitoni avevano agito semplicemente per obbedienza al monarca e non avevano colpa alcuna nei suoi riguardi essenso stati solo esecutori di ordini, ma commentò che la fede del re era fin troppo piccola e che per questo motivo non conveniva al capitano continuare a restare al suo servizio. Raccolse quindi alcune candele che consegnò allo stesso capitano con l’incarico di recarle a Ferrante e ai membri del suo casato con l'invito di riferire da parte sua che se il monarca non avesse mutato il suo atteggiamento nei confronti del popolo  la sua dinastia sarebbe andata incontro ad una fine inesorabile. Cosa che di fatto avvenne agli inizi del 1500.

  L’arresto di Francesco non ebbe luogo. Il bravo eremita pose fine lieto a tutta la vicenda invitando il capitano della nave e i suoi soldati nel refettorio del convento a rifocillarsi, offrendo loro solo due dolci e un po’ di vino che però miracolosamente si moltiplicarono in modo da permettere che tutti mangiassero a sazietà.

  Sempre a Paterno Calabro, dove si intrattenne per parecchi anni, l’onnipotenza divina fu artefice attraverso Francesco di un altro prodigio molto significativo: una giovane coppia di sposi aveva avuto un bambino inorridendo di fronte al suo volto che era risultato dal parto più che deforme. Il piccino non aveva infatti occhi né bocca e nel volto aveva assunto una configurazione che incuteva paura e ribrezzo a guardarlo. Falliti tutti i tentativi da parte della medicina e della scienza, i giovani sposi condussero il loro bambino da Francesco, che tracciando sul volto i lineamenti degli occhi, del naso e della bocca ottenne che questi comparissero effettivamente svolgendo egregiamente la loro funzione.

  Come già era avvenuto a Paola, fu artefice di moltissime guarigioni di infermi che accorrevano a lui da ogni parte presentando chi un male, chi un disturbo, chi una malattia fisica di ogni tipo e tutti veniva no esauditi nella guarigione non senza l’invito a pregare e a confidare nel Signore. Le opere di guarigione che il frate calabrese compiva suscitavano lo sdegno e l’invidia dei medici del posto che vedevano in Francesco un guaritore eccezionale che strappava loro i consensi della gente. Secondo una nota tradizione, a Paterno Calabro Francesco avrebbe operato 200 guarigioni in un solo giorno.

   Piuttosto che i miracoli e gli interventi di carattere soprannaturale,  Paterno Calabro dovette moltissimo al Santo eremita di Paola soprattutto per l'opera di riconciliazione e di pacificazione di cui egli si rese promotore all'interno delle famiglie, presso i lavoratori e i contadini del posto e in ogni altro ambito del sociale: il frate interveniva sovente nelle situazioni di conflittualità e di dissapore risolvendo parecchie animosità e contrasti che lenivano l'unità e la concordia nei nuclei familiari e presso il popolo paternese e mettendo pace nelle liti vicendevoli fra cittadini e lavoratori come quando intervenne su un caso specifico nel quale due contadini proprietari di due terreni confinanti si contendevano un albero possente che si ergeva ai proprio sulla linea di demarcazione fra il terreno dell'uno e dell'altro. La contesa era molto aspra e di difficile soluzione giacchè l'albero sorgeva proprio fra le due proprietà e anche dal punto di vista legale era molto difficile stabilire a quale dei due coloni appartenesse, mentre ciascuno dei due lo rivendicava per sé. Francesco pose fine alla questione con un solo colpo di bastone sulla corteccia della pianta: divise cioè miracolosamente l'albero esattamente a metà sicchè ciascuna delle due parti cadde nella proprietà di ciascuno dei contendenti che cessarono ogni controversia.

  Lo stesso calore di accoglienza da parte della gente Francesco riscosse anche a Spezzano Calabro, altra città della Calabria dove egli fu invitato a fondare un convento sotto l’ausilio delle masse e le donazioni di moltissimi benefattori. Anche in questi luoghi il Paolano si distinse presso il popolo per il dono della virtù e della carità e per le continue esortazioni spirituali e per i miracoli. Ma poiché si era all’epoca in tempi di fame e di precarietà a causa della carestia che aveva decimato tantissimi terreni, il frate si prodigò soprattutto per la carità nei confronti della gente che poteva contare nell’aiuto materiale dell’eremita e della sua comunità che nulla omettevano affinché tutti tornassero a casa con in mano un aiuto materiale o in denaro o sotto qualche altro aspetto. A Spezzano Calabro si verificarono due importanti vocazioni nell’Ordine futuro dei Minimi: la prima fu quella di un tale Bernardino Otranto da Cropalati, un giovane che aveva vissuto smodatamente e privo di morigeratezza dandosi ai vizi e alle cattive abitudini. Una volta si trovò a curiosare in compagnia della sua ragazza presso il nuovo convento di San Francesco spiando dalle finestre la vita del frate paolano. Questi se ne accorse, riprese severamente Bernardino e lo costrinse alla reclusione temporanea in una cella del convento, nella quale il giovane ebbe modo di riflettere, riconsiderare la propria vita e ravvedersi. Quindi chiese perdono a Francesco,che paternamente lo abbracciò e lo accolse nel numero dei suoi religiosi. La vocazione di Fra’ Bernardino da Cropalati conobbe non pochi ostacoli da parte di familiari, visto che più di una volta questi lo indussero a tornare a casa, ma alla fine vinse il buon senso e la volontà di consacrarsi interamente al Signore, per cui il giovane Bernardino, abbandonato ogni tentennamento e ogni riserva, si decise per il convento di Spezzano diventando una delle figure religiose più importanti dell’Ordine. Analoga esperienza fu quella di Giovanni Cadurio, anch’egli fidanzato, che con la propria ragazza, parimenti incuriosito, volle sbirciare nel convento. Francesco gli riservò la stessa punizione inflitta a Bernardino: Giovanni fu incarcerato anch’egli in una cella del convento nella quale si diede ai pianti e alle lamentele fino a quando il frate paolano non intervenne aiutandolo benevolmente a ravvedersi e a cambiare vita. Abbracciò anche lui con profonda convinzione la vita eremitica.

  Le altre fondazioni calabresi riguardarono Corigliano Calabro (1476) e Crotone, quest’ultima realizzata non personalmente ma su delega.

  Un’altra fondazione che non può non essere menzionata è quella del Convento di Milazzo in provincia di Messina, che determinò l’avvenimento storico che condurrà alla proclamazione di San Francesco di Paola come Patrono della Gente di mare in Italia, ad opera di Pio XII nel 1943.

    La sua partenza per  la Sicilia avvenne nell’anno 1482, quando l’eremita, accompagnato dai due confratelli P. Rendacio e Fra Giovanni di San Lucido[30], si mise in cammino alla volta della spiaggia di Reggio Calabria nel punto in cui lo stretto di Messina si restringe rendendo ravvicinate le distanze fra la costa sicula e quella di Calabria e nel quale risulta quindi più favorevole l’imbarco per l’isola di Sicilia. Durante il camminosi verificò un prodigio abbastanza singolare quanto curioso: i frati, stanchi dal viaggio e affamati, non avevano denaro per procurarsi il cibo. Si imbatterono in una comitiva di persone a cui chiesero un po’ di pane. Essi risposero loro di non possederne, dicendo effettivamente la verità: la loro bisaccia era vuota. Francesco insistette nella richiesta, prese poi in mano la bisaccia dei viandanti, vi mise la mano dentro ed estrasse un pane come appena sfornato. Lo spezzò, ne distribuì ai frati e agli sconosciuti viandanti in cui questi si erano imbattuti. Tutti mangiarono a sazietà senza che il pane si consumasse.

  Raggiunto il lido di Reggio dopo parecchi giorni di cammino, si pose per la piccola comitiva il problema dell’attraversamento dello stretto, essendo essi privi di denaro con cui pagare la traversata. Trovarono un barcaiolo che successivamente verrà conosciuto sotto il nome di Pietro Coloso in procinto di partire per Messina con la sua poderosa barca carica di legname, e pensarono bene di chiedere a lui il favore di un passaggio verso l’altra sponda, forse considerando la relativa brevità del traghettamento e al contempo il fatto che pur essendo l’imbarcazione finalizzata direttamente al trasporto delle merci non avrebbe avuto difficoltà a traghettare in via eccezionale il carco aggiuntivo di tre passeggeri per una semplice opera di carità.

  Pietro Coloso non negò di traghettare Francesco e i suoi confratelli, precisando tuttavia che la traversata avrebbe avuto un prezzo in denaro: sarebbero stati traghettati dietro pagamento.

  Furono vane le insistenze dei poveri frati che si appellarono alla carità evangelica e alla generosità  del loro interlocutore, trovando però la ferma refrattarietà di quel barcaiolo venale e irremovibile, cosicché Francesco risolse di confidare unicamente nell’aiuto di Dio. Si appartò in preghiera raccolta per alcuni istanti, poi chiamò a sé i suoi confratelli e insieme a loro si recò sulla riva del mare; si spogliò del proprio mantello, lo spiegò  e lo gettò fra i flutti marini e vi montò sopra invitando i due compagni a fare altrettanto. Questi, pieni di stupore e di meraviglia salirono non senza titubanza a bordo di quella strana imbarcazione improvvisata; la comitiva di eremiti prese così il largo affidandosi al favore del vento e della corrente marina. Il mantello di Francesco funse così da imbarcazione che trasportò incolumi i passeggeri fino alla sponda siciliana. L’iniziativa di Francesco aveva intanto attirato l’attenzione di parecchia gente, che incuriosita stava adesso un po’ per volta riversandosi sulla spiaggia per assistere all’insolito evento. Pietro Coloso, il traghettatore riluttante e per nulla generoso, notando la calma e la concentrazione con cui Francesco non si era scomposto al suo diniego e ora era riuscito ad ottenere quanto sperava con i diretti favori divini, adesso si mostrava ravveduto e mortificato e gridava a gran voce ai tre frati di tornare a riva poiché li avrebbe traghettati fino a Messina senza condizioni ma non ottenne più l'attenzione dei tre marinai improvvisati. La tradizione vuole che per tutta la vita avesse pianto ogni sera in riva al mare la sua mancata generosità.[31]

 L’attraversamento dello Stretto di Messina a bordo del mantello suggerisce la verità delle infinite possibilità della fede e di come l’affidamento fiducioso e spontaneo nel Signore supera le preclusioni e l’egoismo con cui l’uomo suole chiudersi nei confronti del prossimo, soprattutto di quanti si trovano nell’estrema e urgente necessità: l’amore di Dio vince la freddezza e la vanità dell’uomo mostrando come noi in fondo siamo meschini nel confidare esclusivamente nelle nostre certezze. L’attraversamento del mare sottolinea come in Dio e nel suo amore noi possiamo anche affrontare e superare l’imprevisto e le sorprese che la vita ci riserva, sempre se confidiamo nell’assistenza di Chi ci guida verso i liti da noi prefissati in comunione con Lui.

 


 

San Francesco di Paola attraversa lo stretto di Messina a bordo del proprio mantello. (San Francesco di Paola, vita a prodigi in 125 tavole a colori riprodotte da antiche incisioni miniate, a cura di Antonio M. Castiglione, Paola 1982)

 

  Come già si è detto, in considerazione di questo prodigio miracoloso, nella persona del papa Pio XII la Chiesa nel 1943 ha riconosciuto ufficialmente in San Francesco di Paola il Protettore della gente di mare in Italia affidando alla sua speciale intercessione i marinai, i pescatori e quanti lavorano sul mare affrontando i rischi e le intemperie molte volte partendo dalla loro terra senza fare più ritorno a casa. La potente intercessione del Santo favorisce anche coloro che nel mare trovano motivo di svago e di divertimento e richiama l’attenzione a che vengano garantite incolumità e sicurezza a tutti coloro che per un motivo o per un altro si imbarcano e affrontano i flutti marini poiché alla protezione divina va associata la salvaguardia da tutti i pericoli e dai rischi che la vita e il lavoro sul mare comportano.

  E’ interessante notare come Patrono della gente di mare sia stato proclamato un Santo in fin dei conti di provenienza montana che affrontò il mare solo poche volte  e in circostanze quasi del tutto casuali, senza in tutti i casi avere con il prezioso elemento rapporti di natura definitiva e vitale.

  Il viaggio di Francesco fino a Milazzo si svolse con molta tranquillità. Lui e i due confratelli restarono nella cittadina siciliana per diverso tempo sfruttando le buone condizioni che riscontrarono per la costruzione di un convento con relativa chiesa attigua, che fu favorita anche quì dal sostegno economico della gente del posto che aveva invitato tempo addietro il Santo nella propria città avendone conosciuta la fama di uomo perfetto e virtuoso. Si vuole che le campane della chiesa siano state costruite dallo stesso Francesco con alcune monete fondendo un considerevole numero di monete fuori corso che gli erano state date in dono dal re Ferrante d’Aragona; come pure si vuole che il Paolano, tirandola da un’estremità, abbia allungato miracolosamente una trave dalla lunghezza insufficiente a coprire due pareti del convento.

  Così pure è tradizione[32] che durante la scavatura di un pozzo il frate avesse raccolto miracolosamente due enormi pietre che sarebbero servite per la costruzione dello stesso convento e che furono le due uniche fondazioni massicce che garantirono la stabilità di ogni costruzione. Dallo stesso pozzo scavato dal Santo scaturì anche dell'acqua che in un primo momento era salmastra ed imbevibile, ma che il Santo rese potabile con un solo segno di croce.

 

 

1.4 Verso la Francia

 

  Secondo la ricostruzione e la datazione recente, mentre Francesco ancora si trovava a Milazzo fu raggiunto presumibilmente a Paola o a Paterno da alcuni emissari del re Luigi XI di Francia intenti a recargli un messaggio in cui il monarca chiedeva caldamente all’Eremita che lo raggiungesse nella sua lontana reggia per curarlo da un morbo maligno imperdonabile che lo avrebbe certamente condotto alla morte.

   Il re Luigi XI, figlio e successore di Carlo VII era stato monarca fin dal 1461 e  aveva spostato la sede regale da Parigi a Plessis Lez Tours, città a cui era molto devoto. Per il suo connaturale cinismo che lo portò a mostrare freddezza e indifferenza perfino alla morte del padre veniva definito “il ragno.” Nella sua politica era stato avversario di Carlo il Temerario di Borgogna con cui aveva intessuto relazioni poco piacevoli. Uno dei suoi obiettivi era anche quello di incidere nella successione regale del Regno di Aragona, avanzando delle pretese sul re Ferrante. Sviluppando notevolmente l’industri e il commercio, aveva promosso un’ efficiente riforma politica ed economica nella Francia del XV secolo per la quale il paese aveva raggiunto i livelli post feudali di uno stato moderno. Ammalatosi di apoplessia temette per la sua sorte e fece ricorso a parecchi medici che lo curarono senza tuttavia riuscire ad estinguere il male. Consultò anche parecchi magi e astronomi  senza nemmeno trascurare la religione nello specifico della devozione ai Santi nelle reliquie, ma non ottenne la guarigione dalla sua malattia.

  Aveva sentito parlare di Francesco di Paola da un mercante napoletano residente in Francia di nome Matteo Coppola e valutando il dono divino dei numerosissimi miracoli di guarigione per i quali questi si era reso famosissimo in tutta l’Italia meridionale, aveva pensato di chiedere il suo intervento.

  Ragion per cui, Francesco fu interpellato quando ormai aveva fatto ritorno dalla Sicilia dagli emissari della corte di Plessis Les Tour che gli presentarono la richiesta scritta del monarca a recarsi nella sua sede per operarvi il miracolo della guarigione del suo male. Il frate non avrebbe dovuto temere spesa alcuna per il viaggio in quanto la corte francese avrebbe fornito a lui e ad eventuali altri suoi accompagnatori tutti i mezzi necessari al raggiungimento di Plessis Les Tours e si promettevano anche laute ricompense. 

  Pur avendo profetizzato tempo addietro ai suoi religiosi che sarebbe stata volontà di Dio inevitabile che lui partisse per una terra lontana dalla lingua sconosciuta[33] l’ormai anziano Eremita di Paola (aveva 67 anni) rifiutò categoricamente l’invito di Luigi XVI. Come abbiamo avuto modo di notare più volte, le figure di persone facoltose, eminenti e altolocate non lo avevano mai impressionato né distolto dai suoi originari propositi e neppure avevano mai condizionato le sue scelte, tanto più che Francesco non aveva mai valutato in modo discriminante i monarchi dalla gente comune, e aveva anzi mostrato sempre preferenza per gli ultimi, i poveri e i deboli a favore dei quali era sempre stato disposto anzi a combattere contro i potenti. E anche in questa occasione non lo sconvolse l’idea di dare un diniego ad un monarca.

  Certamente sarà stato ben consapevole che in quella circostanza si chiedeva tuttavia un suo intervento miracoloso atto a salvare la vita di un uomo, tuttavia egli interpretava che la sua partenza per altri liti per quello scopo non corrispondeva alla volontà di Dio. Occorre infatti considerare che nell’eseguire i suoi numerosissimi miracoli Francesco non sempre si era reso compiacente con tutti e vi erano stati anche dei casi in cui aveva espressamente rifiutato interventi miracoloso di guarigione o di altra natura appunto perché non corrispondenti al volere di Dio. Questo avveniva specialmente quando nel soggetto non vi fosse la disponibilità di cuore verso il Signore in una fede sincera e risoluta. Come abbiamo già notato infatti Francesco era solito ripetere che “Chi non ha fede, tanto meno può aver grazia.” Quello che adesso gli si presentava era un caso puramente miracolistico nel quale un potente chiedeva ad ogni costo e senza condizioni la sola guarigione da una malattia che la scienza e la magia non era riuscita a dominare per cui ora era sufficiente qualche promessa di ricompensa perché intervenisse un capacissimo frate calabrese.

  Oltre ai motivi suddetti Francesco trovava sprone al rifiuto anche dalla constatazione che nonostante il progresso materiale e spirituale che la sua famiglia religiosa aveva acquistato nel corso di tutti quegli anni, parecchie situazioni erano rimaste ancora insolute prima fra tutte la questione di una Regola o di uno statuto ancora da approvarsi da parte dell’autorità ecclesiastica che cominciava a causare un certo senso di sfiducia da parte di non pochi frati che prospettavano addirittura il passaggio verso un altro Istituto religioso. La situazione generale della congregazione presentava poi una panoramica per la quale nel computo sarebbe stato molto sconveniente e forse anche pericoloso per il suo buon andamento se il loro Fondatore fosse stato assente.

    Il diniego deciso e perentorio di Francesco fu reiterato anche quando il re Luigi XVI chiese l’appoggio del re di Napoli Ferrante di Aragona, che inviò appositamente alcuni messi a Paterno Calabro con l’intenzione di convincere Francesco ad accogliere la richiesta di Luigi XI.

  Finalmente il monarca francese ottenne l’aiuto del papa Sisto IV che per lui si rivelò molto utile e determinante. Il pontefice, che era fra quelli che intanto stavano ostacolando Francesco nell’approvazione della sua Regola, inviò una serie di comunicazioni scritte all’eremita nelle quali questi veniva tassativamente esortato sotto pena di censura canonica ad ottemperare immediatamente alle richieste del re Luigi XVI . Francesco veniva invitato a mettersi in viaggio quanto prima possibile e ad attendere alle richieste del re di Francia.

  Con molta probabilità il papa Sisto IV aveva ritenuto opportuno costringere Francesco anche in virtù di un preciso obiettivo di risanamento dei rapporti alquanto tesi fra il regno di Francia e la Santa Sede per cui le relazioni diplomatiche fra i due uomini andavano riconciliate.

  A Francesco non restò altro da fare se non rimettersi alle severe disposizioni di Sisto IV. Tutti gli agiografi sono concordi nel riportare che la decisione di Francesco fu molto sofferta, anche perché prevedeva che si sarebbe trattato di un lungo viaggio senza ritorno: non avrebbe più rivisto la sua amata Calabria, la sorella Brigida, il nipote, i confratelli di Paola, Paterno, Spezzano e di altri luoghi limitrofi che lui stesso aveva spiritualmente accompagnato. Sarebbe entrato a far parte di una dimensione culturale del tutto diversa da quella alla quale era stato abituato e che non lo avrebbe accolto con lo stesso calore che aveva riscontrato nell’amata patria.

  Accettato comunque il dolore e lo scompenso che sempre e comunque l’obbedienza comporta, Francesco si predispose a partire per quello che per lui doveva essere il nuovo mondo e nel salutare tutti i suoi confratelli, i parenti carnali e la gente del posto trovò moltissimo sconcerto e rammarico giacchè le turbe piansero la dipartita di un uomo che era sempre stato il loro sostegno materiale e spirituale. Alla sorella Brigida, dalla quale si accomiatò con notevole commozione e che gli chiese di lasciarle un ricordo della sua assenza, consegnò un dente che lì per lì estrasse dalla sua mandibola e che ancora oggi è esposto alla pubblica venerazione nell’attuale santuario di Paola.

 

1.4. 1 Le tappe del viaggio: Salerno, Cava dei Tirreni, Napoli

 

  Francesco si mise in viaggio alla volta della corte di Francia nei primi di Febbraio dell’anno 1483, all’età di 67 anni, accompagnato da altri tre frati che il Roberti individua nel P. Bernardino Otranto, P. Cadurio e Fra’ Nicola D’Alessio[34] Aveva rifiutato di viaggiare in nave in compagnia degli emissari del re di Francia che partirono precedendolo a Napoli preferendo lui e i suoi confratelli camminare a piedi seguendo un percorso montuoso alternativo alla via del mare, in compagnia di un asinello di cui avrebbero fatto uso quando si fossero stancati del cammino. Questo per cogliere l’occasione di visitare frattanto i conventi di Corigliano Calabro e di Spezzano.

 La comitiva, salutata da una lunghissima fiumara di gente che saputa la notizia della partenza di Francesco era accorsa a salutarlo commossa e dispiaciuta, raggiunse non senza fatiche e difficoltà la zona della catena montuosa del Pollino che segna i confini fra la Calabria e la Basilicata. Dalla sommità di uno di quei monti che formano la catena, Francesco si soffermò ad osservare amorevolmente la regione che gli aveva dato i natali e che lo aveva cresciuto e formato invitandolo in una grotta, benedicendo quella terra che conservava molte ansie e molte speranze  che gli aveva regalato innumerevoli elargizioni umane e spirituali. Lo sguardo fu molto attento, benedicente e denso di commozione poiché misto a consapevolezza che egli non sarebbe più tornato a calpestare quei luoghi così ameni e generosi anche se non privi di contrasti e di tensioni: prevedeva che il suo viaggio verso l'Oltralpe sarebbe stato senza ritorno e che non avrebbe più avuto la preziosa opportunità di tornare ad interagire con la gente con cui si era configurato per condividerne le   fatiche e le emozioni. Coltivava tuttavia la fiducia che il Signore non avrebbe mai abbandonato quei luoghi e che egli stesso li avrebbe un giorno benedetti dalla dimensione della gloria celeste nella quale sarebbe stato assunto.

  E’ tradizione che sulla roccia di quel monte dove posò i piedi per rivolgere il suo sguardo attento e caloroso siano rimaste indelebili alcune impronte.[35]

  Riprendendo il cammino, il piccolo gruppetto raggiunse la località di Castelluccio in provincia di Potenza dove Francesco incontrando un viandante al quale chiese un po’ di vino e questi non ne aveva fece trovare miracolosamente la botte piena. Da qui si passò a Lauria, dove avvenne un altro miracolo considerevole per la storia della vita del Paolano: consumatisi i ferri ai piedi dell’asinello di nome Martinello che la comitiva portava con sé, Francesco si rivolse a un maniscalco della zona che provvide a sostituirglieli per intero. A lavoro eseguito, l’artigiano chiese di essere pagato, ma Francesco fece notare che non possedeva denaro e si appellò alla carità di quell’uomo, che invece cominciò ad imprecare. Al che Francesco invitò Martinello a restituire i ferri che gli erano stati messi agli zoccoli con possenti saldature. Al che l’asinello con un semplice strattone lasciò cadere i ferri sul pavimento davanti allo stupore del maniscalco che adesso chiedeva, mortificato, di eseguire nuovamente il lavoro gratuitamente. Cosa che non gli fu permessa.

  Giunti a Polla, i frati furono ospitati nella casa di una caritatevole donna dove passarono la notte e alla quale Francesco, come segno di ricompensa, lasciò il suo ritratto disegnato con il carbone su una parete di casa.[36] Da Polla si arrivò a Salerno dove la comitiva fu accolta dalle ovazioni di una folla molto eccitata ed entusiasta e venne ospitata dalla famiglia Capograsso costituita da due coniugi che non avevano avuto il dono di figli e ai quali Francesco profetizzò che avrebbero presto molti figli ma raccomandava che al primo di essi si desse il nome di Francesco Maria.Nel congedarsi da Salerno, Francesco indicò anche il luogo fuori dal centro nel quale un giorno sarebbe sorto un convento dei Minimi. A Cava dei tirreni venne invitato a porre la prima pietra per l’edificazione di una chiesa del Ss. Nome di Gesù e operò diversi miracoli di guarigione.

  Finalmente Francesco e i suoi compagni giunsero, tanto attesi, a Napoli dove intanto erano giunti ormai da diversi giorni gli emissari del re Luigi XI alla corte del Re Ferrante.

  Il popolo partenopeo accolse con grande clamore e concitazione il Paolano che fece ingresso nella capitale del Regno dalla porta Capuana mentre la folla, trattenuta a stento, faceva ala al corteo dello stesso frate accompagnato dai suoi confratelli, esaltando la sua persona, le virtù e il dono dei miracoli. Si trattava del popolo che aveva sempre confidato nella bontà del frate calabrese, nella sua spontanea generosità e nel suo impegno per la giustizia e per la pace e che adesso gli stava esprimendo gratitudine e riconoscenza attraverso un’accoglienza degna delle più alti personalità politiche o ecclesiastiche. A porta Capuana i quattro religiosi trovarono ad accoglierli anche il Re Ferrante d’Aragona, il monarca con il quale Francesco aveva avuto attriti e occasioni di inimicizia e con il quale i rapporti non si erano ancora del tutto stabilizzati a motivo dell’insistenza del frate paolano sulla necessità che il monarca assumesse un comportamento politico atto a favorire la causa dei piccoli e degli umili del popolo. Adesso il Re Ferrante confidava che la presenza di Francesco e il suo viaggio verso la corte di Plessis Le Tours potesse costituire uno sprone alla salvaguardia della stabilità del paese soprattutto attraverso una particolare mediazione diplomatica con Luigi XI che aspirava ad interferire nelle questioni di successione al trono aragonese. A Ferrante stava a cuore anche che la Francia si disponesse ad appoggiare Napoli nell’eventualità che i Turchi assediassero nuovamente il territorio.

   La presenza del frate sarebbe stata pertanto producente in ogni caso.   Francesco e i suoi vennero accompagnati presso il palazzo reale di Napoli. Il Paolano  avrebbe preferito alloggiare nell’allora piccolo convento che ospitava alcuni suoi religiosi sul declivio di un colle sperduto e desolato[37] ma dietro le continue insistenze del re accettò l’ospitalità negli appartamenti regi.

  La permanenza di Francesco alla corte del Re di Napoli si protrasse per alcuni giorni e fu caratterizzata da due avvenimenti emblematici che sconvolsero i presenti ma che non mancano ancora oggi di richiamare l’attenzione sui determinati valori che anche l’attualità sembra svilire o non considerare con la giusta attenzione: invitato a prendere posto a tavola con i suoi confratelli, Francesco ricevette una portata